Per una nuova coscienza afroamericana. “Negroland” di Margo Jefferson

negroland_piatto_SsssQuando si nasce nella parte del mondo in cui non si deve lottare contro il pregiudizio razziale per poter affermare la propria identità, è inevitabile dare per scontati determinati privilegi. Ma quando si nasce in quella parte del mondo in cui ti insegnano fin da bambino a pesare qualsiasi comportamento e a non metterti in mostra in nessun modo, perché ogni minimo gesto può «mettere in pericolo te, i tuoi genitori e la tua gente» – anche se spesso, questa gente, non sai nemmeno bene chi sia, almeno in termini etnici e culturali – e bollarti, «in un colpo solo e per tutta la vita, come volgare, grossolano e inferiore», sei costretto a porti domande su te stesso, la tua famiglia e la tua comunità, e a costruirti da solo un senso di appartenenza che non hai potuto ereditare.

È a tale ricerca che Margo Jefferson, nata a Chicago nel 1947 in una famiglia dell’alta borghesia afroamericana e divenuta poi scrittrice, critica di teatro e di letteratura, nonché docente alla Columbia University, offre un contributo fondamentale.

Negroland (66thand2nd, 2017, traduzione di Sara Antonelli) è una cronaca in cui memoir collettivo e racconto autobiografico si fondono perfettamente attraversando tutto il secondo Novecento e creando una fitta trama all’interno della quale si insinua la genealogia di un’intera classe.

Non è, però, alla storia di soggettività subalterne che si intende dar voce, bensì a quella di un’élite. Per la precisione, un’«élite della razza di colore» in un mondo di bianchi, per la quale qualsiasi successo, progresso e conquista saranno sempre subordinati al colore della propria pelle.

Negroland è un territorio senza confini geografici ben definiti, «una piccola regione dell’America Negra i cui abitanti erano protetti da un certo grado di benessere e privilegi», pur dovendo costantemente sopperire a una “mancanza” (per alcuni, forse,  una colpa): quella di essere troppo Negri (termine rivendicato con veemenza dall’autrice stessa) per essere considerati bianchi, ma di non esserlo abbastanza agli occhi di chi ancora non gode delle loro stesse libertà.

I cittadini di Negroland sono sindaci, medici, artigiani specializzati, insegnanti, pastori di chiesa; sono coloro che possono battersi per i privilegi dei propri figli, e che godono di numerose libertà: quella di sposarsi, di guadagnare dei soldi, di educare legalmente figli altrettanto liberi, di creare società di vario genere.

Sono una cronachista di Negroland, una testimone partecipe, un’elogista, una dissenziente e un’ammiratrice, a volte un’espatriata, sempre un’interlocutrice.

La scelta del termine Negroland è ben ponderata e risiede interamente nella sua radice, “Negro”, come scrive Margo Jefferson stessa: «[…] trovo ancora che “Negro” sia una parola sbalorditiva, illustre e terrificante. Una parola che trovi sui manifesti con gli schiavi fuggiaschi e sugli editti con i diritti civili […]». È la volontà di enfatizzare la dignità di questa parola e di tutti coloro che trovano in essa una forma di identificazione, a muovere l’intero racconto. Un racconto in cui questioni di razza, classe e genere si intrecciano senza lasciare alcuno spazio a vittimismi e sentimentalismi, e che evidenzia una responsabilità collettiva nella creazione e protrazione di determinati stereotipi intorno al concetto di “razza”, ancora oggi così difficili da abbattere.

È troppo semplice, quando scriviamo di noi, indugiare sui brutti ricordi. Crogiolarsi nella nostra innocenza. Ammirare il nostro dolore.

Margo Jefferson è figlia di un medico e di una ex assistente sociale. È a sua madre che, da piccola, chiede se la loro famiglia appartenga alla classe elevata. La risposta che ottiene è la seguente: «Ci consideriamo Negri della classe elevata e al contempo americani dell’alta borghesia. […] Ma per la gran parte della gente noi siamo “Negri come tutti gli altri”». È un insegnamento che Margo deve imparare presto, quello di appartenere a una «Terza Razza, sospesa tra le masse di Negri e tutte le classi di caucasici» e che per farne parte è necessario seguire una rigida etichetta nella quale i prodotti utilizzati per domare i propri capelli contano quanto la forma del naso, il portamento o l’esatta tonalità della pelle.

Al nostro interno c’è uno spazio in cui si è depositato tutto il materiale razziale, che non è materiale statico, ma cangiante, o perlomeno si mescola.
Quante volte possiamo raccontare le nostre vite dal punto di vista culturale? A quante versioni di noi stesse possiamo raccontarle?

A questi aspetti, se ne aggiunge un altro imprescindibile per la battaglia femminista condotta da Jefferson: la consapevolezza di far parte dei Negri, ma di essere anche una donna, e di dover per questo lottare doppiamente, affermandosi in una lotta dominata dagli uomini, quando si tratta dei diritti dei neri, ma dalle bianche, quando si tratta dei diritti delle donne.

Le riflessioni di Margo Jefferson, arricchite da numerose digressioni storiche e autobiografiche, ampliano i confini di una nuova coscienza di classe: quella di una cultura afroamericana in cui «a volte quasi ci si dimentica di essere Negri» (adattando le parole di sua madre), e che viene estesa a «qualunque cultura senza limiti razziali». Perché dimenticarsi ciò che si è non significa ripudiare sé stessi, ma «reclamare uno spazio di libertà» in cui essere felici, nel quale «tutto, sia quello che sta dentro sia quello che sta fuori, si trova al posto giusto».

3 pensieri riguardo “Per una nuova coscienza afroamericana. “Negroland” di Margo Jefferson

    1. Allora sono onorato di averlo portato alla tua attenzione: è un capolavoro (e ti assicuro che uso questo termine con molta parsimonia).
      Se ti va, poi fammi sapere come hai trovato il film. Se invece non dovessi più sentirti, per me avertelo fatto scoprire è già una grandissima soddisfazione. Grazie per la risposta, e buon fine settimana! 🙂

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